La ricerca del Politecnico di Torino su alimenti e fabbisogno idrico
Un chilo di carne rossa costa quindicimila litri d’acqua
Sull’«impronta idrica» incidono soprattutto gli alimenti di origine animale. Per un chilo di carne di manzo si usano 6,5 chili di granaglie, 36 di paglia e 155 litri di acqua. L’impronta idrica equivale a 15.400 litri . L’allevamento di un capo richiede 5000 metri cubi l’equivalente di due piscine olimpiche.
Quanta acqua c’è in una tazzina di caffè? 140 litri. Risposta esatta, se il liquido considerato non è quel sorso bevuto al bancone del bar, ma l’acqua impiegata durante tutto il ciclo produttivo per ottenere quei pochi chicchi macinati finiti nella cialda.
Si chiama «acqua virtuale». È la risorsa consumata e nascosta nella storia di cibi e prodotti naturali che da un paio di anni è oggetto di studio del gruppo di ricerca WaterInFood del Politecnico, primo in Italia ad occuparsi di impronta idrica dei cibi che arrivano in tavola. Ricercatori e docenti, insieme a rappresentanti del governo e delle aziende, domani, dalle 14, al Circolo dei Lettori animano un incontro-dibattito sulla globalizzazione delle risorse idriche nascoste in ciò che mangiamo.
«Il nome non deve trarre in inganno – spiegano i docenti Luca Ridofi e Francesco Laio, che ha ottenuto importanti finanziamenti dal ministero per i progetti di ricerca –. In questo campo nulla è più reale del virtuale: l’acqua di cui parliamo non è presente nell’alimento, ma è stata consumata per produrlo e incide in modo concreto sull’ambiente». Cifre esorbitanti fotografano la rete globale dell’«acqua che mangiamo», una grande catena che unisce produttori e consumatori di cibo in giro per il mondo la cui dimensione è stimata in 2 mila 500 miliardi di metri cubi: 50 volte la quantità d’acqua che ogni anno dal Po finisce in Adriatico.
Più dell’80% del consumo idrico mondiale è destinato alla produzione di cibi e l’Italia è uno dei maggiori importatori globali. I grandi produttori di alimenti ed esportatori di acqua virtuale sono Stati Uniti, Australia, Argentina, Brasile, Canada e Indonesia. La Cina, un quinto della popolazione mondiale, dagli anni Ottanta si è trasformata da debole esportatore di acqua nei cibi ad importatore sempre più vorace.
Non solo pasta e bistecche, il calcolo dell’impronta idrica, cioè del «peso» del cibo sull’ambiente, si può applicare a qualsiasi alimento. Per un gianduiotto, hanno calcolato i ricercatori del Poli analizzando un prodotto simbolo di Torino, il contenuto di acqua virtuale è di 130 litri. «Nel conteggio – dice Stefania Tamea, assegnista di ricerca del gruppo torinese e coautrice di una pubblicazione che fa il punto sulla situazione italiana – è compresa l’acqua utilizzata per l’irrigazione dei campi, ma anche quella necessaria a diluire gli agenti inquinanti, pesticidi e trattamenti chimici utilizzati in agricoltura».
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